La guerra, i diritti, le organizzazioni civiche: le domande che non ci facciamo.

L’aggressione della Russia all’Ucraina sta catalizzando l’attenzione ormai da un mese.

I livelli di ragionamento sono molteplici.

Primo livello: geopolitico.

Putin non è un pazzo né tantomeno sprovveduto.

Ha preparato il colpo da anni, sia internamente che esternamente.

Ha un’idea di potere che vuole riproporre in chiave imperialista la presenza e il dominio della Russia su territori che “sente” di sua proprietà per la cultura ex sovietica nella quale è cresciuto, si è formato e ha sviluppato negli anni di presenza al comando. E come lui e la maggior parte dei suoi “coetanei”.

Il consenso delle azioni di Putin è forte nelle campagne e nell’elettorato oltre i 50 anni.

La politica repressiva interna, il controllo capillare dei media e la gestione spregiudicata contro i dissidenti rende compatto, per gli usi, questa strategia.

Strategia che all’esterno negli anni ha avuto diversi impegni: sostegno alle “destre” nazionaliste antieuropee in giro per l’UE (qui ci sarebbero domande da porre ai diversi partiti per l’UE e anche in Gran Bretagna), sostegno/intromissione nelle elezioni americane del 2016, presenza attiva in diversi scenari di guerra mediorientali (Siria) e mediterranei (Libia) e via dicendo.

Tutte queste azioni erano volte ad ampliare la sfera di influenza in diversi contesti e scenari per creare una zona di “accoglienza” verso richieste e obiettivi molto determinati, chiari e facilmente individuabili (per chi segue queste dinamiche).

Scopo finale di tutte queste azioni: rendere la Russia un centro di attrazione per il futuro prossimo venturo. In competizione con la Cina con i paesi del Sud Est asiatico, vere realtà emergenti da oltre 30 anni. Con buona pace dell’atlantismo che noi europei ancora guardiamo come se fosse un’immagine salvifica.

L’attacco all’Ucraina, quindi, non è una botta da matto ma una conseguenza di una politica lucidissima di espansione imperialista che parte da lontano.

E la NATO non c’entra nulla.

Rappresenta solo un ostacolo ad un disegno di potere.

È da notare che sulla sua strada non ha trovato la NATO, ma per ben due volte (Siria e Libia) la Turchia.

Qui Erdogan ha un disegno simile di restaurazione del fu “impero ottomano” e dell’ampliamento della sfera di influenza di ciò che fu (per gli smemorati l’Italia nel 1911-12 dichiarò guerra all’Impero Ottomano e gli sottrasse la Libia e le Isole del Dodecaneso…parliamo di 110 anni fa.

Quindi occhio.

Anche perché sono almeno 30 anni che l’asse delle “potenze” e delle scelte si è via via spostato verso il Sud Est Asiatico con minore peso, quindi, dell’Occidente.

E tale situazione non ha ad oggi una visione globale di come ci si deve posizionare come UE.

Deboli, balbettanti e paganti.

Questo appariamo agli occhi di un politico del Sud Est asiatico.

La partita è simile allo spostamento del “centro del mondo” e al declino dell’area Mediterranea seguente alla scoperta dell’America: tutte le potenze emergenti di quel periodo erano potenze che guardavano a Ovest e il centro era l’Oceano Atlantico: la Spagna, la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra.

Secondo livello: i diritti.

È evidente che il diritto per essere tale deve avere una efficacia reale.

Se uno Stato aggredisce un altro le azioni che giuridicamente si possono e si devono avviare devono avere seguito, efficacia e effetto.

Ed è altresì evidente che il diritto internazionale in questi anni è stato svuotato di senso grazie anche ad alcuni colpi ben assestati.

Un esempio su tutti.

Non più tardi di tre anni fa il Ministro degli Interni della Repubblica Italiana scatenò una ondata social, mediatica e anche giudiziaria nei confronti delle ONG (Organizzazioni Non Governative) che salvavano migranti dal mare, in fuga dalle guerre e in fuga dalla povertà (colpa rilevantissima).

Ora se passa questo messaggio come si può pretendere di invocare diritti verso i rifugiati di guerra? Verso persone che, per ogni trattato internazionale, sono civili aggrediti?

Le domande di diritti, di rispetto dei diritti internazionali, di applicazione di sanzioni rigorose verso chi infrange questi diritti è tutt’oggi un vulnus per la democrazia.

Qui sta il vero attacco di Putin.

È un attacco alla democrazia, ai valori che propone ed alla dialettica che deve innervare i processi decisionali.

Lo svuotamento della “parola” democrazia da parte di Putin verso le elezioni politiche, amministrative, l’occupazione sistematica dei posti di potere, l’eliminazione fisica e strutturale di qualsiasi opposizione, la creazione di un cerchio magico di “oligarchi” che dal punto di vista economico sono stati ricompensati, il mantenimento di “status” particolari per l’esercito russo e via dicendo sono risposte operative allo svuotamento della parola e della pratica democratica in Russia.

Ma attenzione.

Anche qui tale slittamento è ben presente in altri stati che si definiscono democratici.

Tendiamo, per interesse noi europei, a dimenticare.

E a pagare per le nostre amnesie.

Ma le uccisioni di giornalisti che avevano sollevato enorme attenzione, di dissidenti sistemati con avvelenamenti vari o incidenti improvvisi sono, in alcuni casi, fatte sotto i nostri occhi, dentro l’UE.

In altri a casa loro.

Ma il sistema “democratico” russo ha tenuto.

La stessa parola “pacifismo” e gli slogan di oggi contro il sostegno alla legittima difesa della Ucraina sono il frutto avvelenato di una cultura sovietica risalente al periodo staliniano dove la parola “pace” era strumento di penetrazione del PCI verso la sua ala destra (socialisti e altri).

La pace non è l’assenza di guerra.

La pace è un prodotto che parte dalla giustizia: giustizia che ha la sua base nei diritti umani, nelle persone e nelle relazioni.

La pace è quanto di più distante si possa immaginare dal “pacifismo” che è frutto strumentale di una logica di “potenza” e di “prevaricazione”.

I carri armati russi nei paesi dell’Est Europa sono dello stesso periodo della “politica di pace” che veniva mediaticamente lanciata da Stalin.

Logicamente anche nel nostro paese ci sono legittimamente formazioni che culturalmente provengono da questa “traccia” che ha avuto un seguito rilevante nella storia del paese e del suo sviluppo democratico.

Solo che ora forse sarebbe il caso che si capisse dove siamo, in che anni siamo e chi abbiamo di fronte.

Il muro di Berlino è caduto, ma c’è ancora tanta “gggente” che pensa così.

Anche questo, per fortuna, è possibile in democrazia.

Da altre parti no.

La differenza se vogliamo sta nelle piccole cose.

Ma torniamo al tema diritti.

Le organizzazioni internazionali nel tempo sono state “svuotate” del portato più “pericoloso” per gli Stati (per tutti gli Stati, non solo la Russia sia chiaro): quello dei diritti umani, del loro rispetto e delle sanzioni che ogni diritto per essere tale deve non solo prevedere ma anche vedere applicati.

Questa è una riflessione che ci deve portare lontano e che, operativamente, dovrebbe impegnare gli uomini e le donne di buona volontà nella costruzione della giustizia e quindi, poi, della pace.

Non viceversa.

Se pensassimo che le guerre sono da evitare ci limiteremmo al solito esercizio ipocrita.

Ma questa operazione è la risposta, prima di tutto alle esigenze delle persone e poi anche delle comunità statali di avere pace attraverso la giustizia.

È un percorso lungo, difficile e denso di ostacoli di ogni tipo.

Ma se non vogliamo continuare a fare le anime belle e a dichiararci democratici forse è il caso di assumerci tutti, come cittadini e come organizzazioni le responsabilità e i poteri che ci spettano, competono e che, per casi strani, la Storia ci riserva.

E qui arriviamo al terzo livello.

Terzo livello: le organizzazioni civiche.

Nella retorica di guerra la prima vittima è la verità.

Verità dei fatti e via dicendo.

Nella narrazione bellica le azioni civiche sono relegate a interventi da Libro cuore, a struggenti storie, a impegni da supereroi.

Io vedo una altra narrazione che non si vuole assumere come “domanda” di democrazia.

Mi spiego.

Le organizzazioni civiche, nazionali e internazionali non faccio distinzione che questa pure la dice lunga sul tema “diritti” che si capisce ovunque anche al Polo Nord, sono un elemento dello sviluppo democratico, delle relazioni tra persone, delle capacità umane di essere attori dello sviluppo umano.

In questi anni le organizzazioni civiche hanno costruito relazioni, reti, network; hanno costruito competenze, professionalità, efficienze che in molti casi rappresentano la spina dorsale di interventi più o meno emergenziali; hanno dato carne e ossa ad un’idea di “umanità” solidale che costruisce percorsi di sviluppo umano in ogni angolo del mondo.

E sono, tra mille difficoltà, sul pezzo tutti i santi giorni, in guerra e in pace, in paesi democratici e in altri meno.

In una parola si sono fatti “governo” delle cose umane, governo che assume responsabilità e potere nelle azioni che conduce, promuove e sostiene.

Tale azione democratica, questa sì e non quella di Putin e dei suoi simili, non è “riconosciuta” se non come ancella della politica di relazioni tra Stati, tra poteri e tra consessi istituzionalizzati.

In sostanza, da decenni ormai, le organizzazioni civiche fanno parte della infrastruttura democratica dei diversi paesi e sono la concretizzazione operativa, pratica, di azione di un modello di sviluppo che mette al centro le persone, i loro bisogni e le loro aspirazioni ad avere una vita dignitosa.

Se tutto ciò è vero, perché le organizzazioni civiche per prime non esprimono compiutamente quelle domande di senso sulla loro natura, sugli obiettivi e sulle azioni conseguenti che dovrebbero (e dovremmo assumere) anche e soprattutto nei contesti più complicati come quelli delle guerre?

Quale è il ruolo delle organizzazioni civiche in questi scenari?

Quale è il ruolo e il potere che le organizzazioni civiche possono, debbono e vogliono agire nei contesti quotidiani dove sono attive?

Quale è il peso specifico al contributo della promozione dei diritti umani che alimentano con le loro azioni?

E se, in fondo, l’essere organizzazione civica risponde alla domanda di diritti che proviene da ogni essere umano perché, ancora oggi, di fronte all’ennesima guerra guerreggiata, non si dà l’unica e più operativa risposta possibile all’aggressione militare anche con un’azione di “costituzione di parte civile” verso i crimini di guerra e verso i criminali di guerra (di tutte le guerre e di ogni guerra)?

Per stabilire un precedente.

Per dare un segnale.

Perché non accada ad altri e non accada mai più che chi usa la guerra come strumento di potenza, di relazioni tra stati e tra uomini, la passi liscia e magari faccia affari con i nostri ordinamenti democraticamente eletti.

Forse anche questa è e può apparire un’utopia.

Ma mi rifaccio alla storia, come sempre.

La grandezza della mia città, Roma, sta in un atto politico potentissimo e ancora oggi insuperato: Romolo, così narra la leggenda, diede la “cittadinanza” a chiunque si fosse stabilito entro i confini della città appena delimitati.

Tutti coloro i quali entrarono in quei confini sacri divennero cittadini romani.

Così di colpo.

E la leggenda si trasformò in storia.

Ecco la potenza del diritto di fronte a situazioni che, anche allora come oggi, non sono assolutamente semplici.

Il diritto fonda le comunità, le ordina, le promuove.

E ne promuove la dignità delle persone.

Dobbiamo allora ampliare questo recinto, questo sacro confine, questo “limes”.

E il compito, a me pare, che spetti proprio alle organizzazioni civiche.

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