Il Covid 19 sarà sicuramente ricordato nei libri di storia. Chi tra 100 anni studierà questo periodo nel quale siamo immersi fino al collo e oltre osserverà documenti, foto, video di come il mondo è cambiato, si è trasformato, si è rimodellato dopo.
Dico “dopo” per una inguaribile speranza che l’uomo, nonostante tutto, abbia una straordinaria capacità di adattamento superiore probabilmente anche al virus in questione.
Ma penso anche che quel “dopo” si costruisce qui ora con le nostre mani, con le nostre intelligenze, con i nostri limiti.
E allora su cosa intervenire? Dove investire? Quale priorità dare e come operare?
Ci sono tre grandi assi delle politiche pubbliche che sono state particolarmente “stressate” e sono entrate definitivamente in sofferenza.
La sanità, la scuola e i servizi pubblici locali.
I processi neoliberisti attuati da fine anni 90 hanno depotenziato questi assetti producendo una limitazione all’accesso, una differenziazione territoriale che è diventata sempre più diseguaglianza sostanziale prima che formale, un impoverimento e un livellamento al ribasso delle offerte dei servizi pubblici locali.
Esempi nei tre assetti sono talmente tanti che fare una lista prenderebbe un intero vocabolario.
La stessa operazione messa in campo dalla UE con il PNRR è un tentativo di rimodellare un vaso che, se non è rotto, certo non sta mica messo tanto bene. Lo stesso progetto inclusivo della UE è sotto attacco da più parti e con interessi convergenti: le grandi potenze USA, Russia, Cina, le destre di varia estrazione, il Regno Unito. La stessa ragione dell’essere europei in questi difficili ultimi 30 anni ha visto più arresti che progressi. Manca una visione autonoma della UE e dei rapporti tra stati nazionali da un lato e il rispetto dei diritti umani dall’altro. Manca o è flebile la voce e la concreta promozione di sviluppo umano di fronte a interessi economici di varia natura. È vero in UE non ci sono guerre dal 1945. Ma negli ultimi 30 anni la guerra si è regionalizzata. Parcellizzata. Frammentata. È diventata per noi europei che stiamo da questa parte della tv un servizio, un reportage, un fatto tra i tanti nei TG.
Le sfide che abbiamo davanti sono oggettivamente molto importanti. Perché il Covid 19 ci ha riportato all’essenza delle cose. Il Covid 19 è stato un marcatore dei nostri fallimenti, degli errori strategici, operativi e materiali che abbiamo, con la logica neoliberista del consumo predatorio, attuato sistematicamente. Ed esportato con successo in altri contesti e scenari. Senza fare guerre magari.
Qui non si tratta di un messaggio pauperistico dove si va a declamare la decrescita felice o qualche botta di new age per passare la nottata. Molto più prosaicamente si tratta di dare le giuste priorità a politiche, interventi e assetti che potrebbero determinare il nostro futuro, quello che saremo noi e che potrebbero essere i nostri figli ei nostri nipoti.
Se tutto questo è minimamente vero allora una prima risposta al disastro culturale, prima che sociale e economico degli ultimi 30 anni deve poggiare le basi su un impegno forte, determinato e deciso su salute pubblica, scuola pubblica e servizi pubblici locali.
Alcune necessarie specifiche.
Salute è un concetto alto che ha come obiettivo il benessere della/e persona/e. E operativamente si traduce in prevenzione, educazione sanitaria, stili di vita sani, cura del territorio etc. etc.
Altra cosa è la sanità che è l’organizzazione dei servizi che erogano prestazioni funzionali al mantenimento, alla cura e alla gestione degli stessi servizi.
Parliamo e ci occupiamo molto della sanità. Poco e male della salute che sembra in realtà accessoria alla sanità.
Pubblica: pubblico deve essere l’interesse e tutto quello che entra in questo perimetro deve sottostare a regole certe definite dall’ente pubblico.
Rimettere al centro delle politiche la salute allora assume una prospettiva diversa. Non si tratta di organizzare prestazioni, di tariffare ogni intervento (la logica per la quale si deve stare male perché altrimenti che DRG uso…), di frammentare luoghi, percorsi, professioni.
Si tratta di fare un passo indietro per farne dieci avanti. Dobbiamo ripartire dalla prevenzione e dalla educazione sanitaria. E lo si deve fare partendo dalla scuola come luogo di prossimità, di vicinato, di relazione. Le scuole dovrebbero tendere a essere palestre di vita sempre aperte al proprio territorio, al proprio quartiere dove esercitare nuove e vecchie pratiche di relazioni anche tra generazioni. Riconnettere i fili delle relazioni tra generazioni, tra attitudini, tra mestieri ad esempio. Non serve costruire nuovi edifici. Abbiamo le nostre scuole.
Oddio in realtà le scuole dovrebbero avere interventi strutturali rilevanti!
E i servizi pubblici come il trasporto diventano il volano, l’infrastruttura attraverso la quale i territori tornano a avere opportunità. Dopo l’ubriacatura della Alta Velocità che ha avvicinato solo le grandi città è tempo della Mobilità Lenta che dia dignità ai nostri borghi, ai nostri paeselli adagiati sulle colline o nascosti sui rilievi montani.
La tecnologia potrebbe essere in questo un valido alleato anche per il lavoro a casa o da casa. Dotare di fibra ottica le nostre aree interne darebbe a questa porzione maggioritaria del nostro paese l’occasione di avere opportunità nuove di ripopolamento, di lavoro nuovo in antichi borghi, di qualità della vita che aumenterebbe e di servizi pubblici che potrebbero subire una felice impennata.
Qui non si tratta di rifiutare la tecnologia per cercare il bel tempo andato. Si tratta di non essere scemi invece e di usare la tecnologia per dare un senso diverso, nuovo e antico al nostro territorio, alle nostre bellezze inarrivabili, al nostro futuro.
E tutto questo si può fare partendo da un atteggiamento fondamentale: la relazione tra persone, il dialogo, il confronto e, anche, il conflitto. Perché i processi innovativi nascono da queste dinamiche. Non da un pensiero lineare, pulito, asettico. Ma da scontro, passione, dura dialettica. E da una volontà, intelligenza e capacità di resistenza temprate dalle pieghe della storia.
Si apre una stagione nuova. E bisogna essere preparati perché si va disegnare il futuro prossimo venturo. Ed è un tempo che avvicina scelte, responsabilità e esercizio di discernimento forte, radicale, innovativo.
In fondo mi piace immaginare che chi tra cento anni dovrà, suo malgrado, studiare la storia di oggi possa, come una improvvisa scintilla, riconoscersi guardando quello che saremo stati in grado di fare noi dopo.